Mastrovito: si rischia di sostituire il valore del diritto con quello del reddito.
Troppo a lungo, si è discusso della Questione meridionale fino ad arrivare, nel tentativo di risoluzione di questioni strutturali, a teorizzare il federalismo fiscale in nome della trasparenza ed efficienza. Ed allora lo Stato (i burocrati) ha iniziato con il misurare, Comune per Comune, fabbisogni, costi e servizi con l’obiettivo di attribuire a ciascun territorio le risorse corrette, ma procedendo con sguardi miopi non utili a cogliere diversità, di un Paese dalle tante sfumature culturali, economiche, sociali e geografiche.
E quelle misurazioni, hanno sovvertito le attese, pensando magari di far emergere l’incapacità della classe dirigente del Sud di governare i processi e utilizzare le risorse. Ma l’uguaglianza, ha costi economici e culturali enormi e così, si è imboccata la scorciatoia di piegare le regole alle necessità, in modo da attribuire al Sud, meno diritti e meno soldi, rivedendo i fabbisogni di intere aree, con la logica del “no fabbisogno, no soldi”. Insomma, come se il cittadino di Matera in un futuro prossimo, avesse meno bisogno di una linea ferroviaria o di una mensa scolastica, rispetto al suo “collega cittadino” del varesotto. Un duro colpo ai principi perequativi della Costituzione. Oggi il dibattito, è tutto sul federalismo differenziato, con maggiori autonomie, risorse e diritti nelle Regioni ricche e virtuose.
Come ACLI, esprimiamo profonda preoccupazione per gli accordi discussi nel Consiglio dei Ministri e per lo stile sin qui utilizzato. Attendiamo di conoscere nel dettaglio i punti dell’accordo, che meriterebbe un tavolo istituzionale serio, che non può essere relegato ad un patto di governo ma ad un patto costituzionale, auspicando che, nel valorizzare le differenze e le autonomie delle singole regioni, non si perdano i principi di leale collaborazione, di sussidiarietà e di solidarietà tra Stato e Regioni, che sono alla base dell’uguaglianza garantita a tutti i cittadini.
E’ fondamentale – dichiara Mastrovito – che non vengano alimentate le spaccature che già dividono il Paese, così come descritto nella ricerca del 2018 condotta dalle ACLI. In questo senso, non si può sostituire il valore del diritto, con il valore del reddito perché si rischia di trasformare dei beni collettivi, come ad esempio la sanità pubblica, in proprietà private riservata a pochi.
La lunga recessione ha spezzato ancor più lo stivale ma il dualismo economico Nord-Sud che da un secolo e mezzo disunisce ciò che l’Italia ha unito, non basta più a descrivere quale Paese siamo oggi. L’effetto combinato tra la crisi (specialmente dell’industria) e la spinta alla modernizzazione ha prodotto nuove fratture, che percorrono trasversalmente le dorsali italiane. La nuova mappa delle diseguaglianze che emerge dalla nostra ricerca, condotta rielaborando i dati delle dichiarazione dei redditi ai presentate ai nostri CAF e quelli delle banche dati ufficiali, ci consegna un Paese che può essere suddiviso in cinque (5) aree diverse.
Sono le «Cinque Italie» che ci lascia in eredità la crisi, aree non sempre contigue ma omogenee al loro interno per il reddito pro-capite, gli indicatori economici e del disagio sociale. Con un paradosso: le zone che hanno meglio reagito alla recessione sono anche quelle dove sono più aumentate le disparità interne. Solo nel 20% dei casi la forbice sociale si è ridotta, e si tratta dei territori più arretrati.
1) L’Italia che corre di più, secondo il nostro rapporto è quella dei «poli dinamici e della crescita asimmetrica»… sono le province di Roma e Milano e l’Emilia Romagna, trainate dallo sviluppo dei servizi e del terziario avanzato, dalla presenza di grandi imprese e da una crescita demografica (grazie al saldo migratorio positivo). Il centro di questa Italia è l’area metropolitana milanese, che si propaga la dorsale della via Emilia mentre Roma ne fa parte come snodo nevralgico delle istituzioni, delle grandi imprese pubbliche e delle rappresentanze internazionali. Il Pil pro-capite è di € 31.500, quasi il 50% in più dei 22 mila nazionali… aree forti ma non immuni da problemi: qui le diseguaglianze tra il 2008 e il 2015 sono salite del 7,6% a fronte del 4,3% italiano.
2) Il secondo gruppo è l’«Italia delle comunità prospere o del benessere diffuso». Sono 13 province del Centro e del Nord, non lontane dal primo polo per livelli di ricchezza. Qui il tasso di occupazione è del 66%, dieci punti in più della media e l’incidenza delle esportazione sul Pil arriva al 35%, contro il 26 nazionale. Ne fanno parte due province toscane (Firenze e Siena), due piemontesi (Cuneo e Biella), Forli e quasi tutto il Nordest (non Venezia). Zone dove la ricchezza è più equamente distribuita sul territorio e tra gli strati sociali e il modello di sviluppo più equilibrato. Non sarà il paese del Bengodi ma è l’Italia che sta meglio.
3) Il terzo gruppo è quello l’«Italia che resiste», i «territori industriosi» di storico insediamento manifatturiero, dove il tessuto produttivo è stato messo a dura prova dalla globalizzazione ancor prima della crisi. Ma che nel complesso è riuscita a resistere, pur perdendo terreno. Il Pil pro capite resta un po’ sopra la media nazionale, mentre l’indice che misura il disagio sociale è inferiore. È un’area molto estesa, 40 province che comprendono quasi tutto il resto del Nord e il centro fino a Grosseto, Perugia e Ascoli sul confine meridionale. Una «Italia di mezzo» di cui fanno parte Torino, Genova, Venezia, Trieste, Ancona, Brescia e Livorno per restare alle maggiori città.
Gli ultimi due territori, sono quelle del maggior disagio e comprendono gran parte del Meridione…
4) Nel quarto gruppo ci sono le «Province depresse», l’«Italia in lento declino». Ne fanno parte Sardegna, Basilicata, le provincie di Lecce e Ragusa e, risalendo verso nord, Molise e Abruzzo, tutto il Lazio tranne Roma, Terni, Massa Carrara e Imperia. Territori impantanati in una lunga stagnazione ma ancora non troppo distanti dagli standard nazionali. Il Pil qui è a quota 18.500 euro e l’occupazione oltre il 51%.
5) Ben diversa la situazione dell’ultimo gruppo, il «Sud fragile» dove il Pil pro capite, è di circa un terzo sotto a quello nazionale e meno della metà di quello del primo gruppo, l’indice di occupazione è al 40%, e la disoccupazione giovanile oltre il 55%, il saldo migratorio in rosso. Un’«Italia del profondo disagio» che, afferma il rapporto «non ha ancora dato cenni di reazione alla crisi». Stanno quasi tutte in questa area, le 23 province italiane dove le diseguaglianze non sono aumentate durante la crisi. Una sorta di livellamento verso il basso.
A questa diversificazione, in politica, si contrappone l’ansia di voler semplificare a tutti i costi, una realtà variegata in continua evoluzione, complessa e disintermediata; un’ansia prodotta dalla stessa opinione pubblica, che richiede valutazioni sempre più rapide (quasi istantanee) cancellando o banalizzando d’emblée la ricchezza di un Paese da mille sfumature…le stesse che abitano le basi elettorali, che non rispondono più alle logiche della dialettica costituzionale e che fanno del populismo, la semplificazione dello spazio politico, dove si realizzava la mediazione degli interessi. E’ il tempo del discernimento, del senso civico da recuperare, della fertilità sociale che genera le reti di prossimità, di un pensiero nuovo per tornare ad essere il Belpaese!